“DEONTOLOGIA PROFESSIONALE: QUESTA SCONOSCIUTA”

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Relazione dell’Avv. Daria Ventura (Consigliere Distrettuale AMI Lazio)

 “IL CONFLITTO DI INTERESSI NEL PROCESSO DI FAMIGLIA”

Convegno AMI Lazio del 13 dicembre 2016 “Etica, deontologia e responsabilita’ nel processo di famiglia (le professioni nel conflitto familiare)”

 

Ogni professione è esercitata da uomini ed è rivolta ad altri uomini e per questo motivo ha una ricaduta più o meno diretta sulla vita dell’uomo ed assume quindi, inevitabilmente, un risvolto etico.

Vi sono tuttavia professioni – come la professione dell’Avvocato di famiglia – che dal punto di vista etico presentano maggiori implicazioni.

La responsabilità personale in chi svolge tale attività è maggiore, perché i destinatari della prestazione vengono raggiunti proprio nel momento in cui stanno vivendo situazioni affettivamente critiche e decisive della propria esistenza.

Ragion per cui ritengo che l’Avvocato familiarista debba possedere, oltre alla necessaria competenza, un’elevata etica professionale che lo induca ad agevolare la soluzione dei conflitti familiari e mai ad acuirli ed in ogni caso ad astenersi dal prestare la propria attività professionale ogni qualvolta questa determini un CONFLITTO DI INTERESSI.

Ma prima di esaminare le più recenti pronunce del C.N.F. e della giurisprudenza di legittimità sul punto, vi racconto brevemente l’esperienza personale di un mio cliente con il precedente difensore che può far comprendere meglio, in concreto, quali siano i risvolti e le ricadute di un comportamento deontologicamente scorretto dell’Avvocato non soltanto all’interno dei conflitti familiari e del processo ma anche sull’essenza etica della nostra Professione.

Il mio cliente, all’apice della crisi matrimoniale, emotivamente molto confuso e provato perchè reduce da una scappatella maldestra che aveva costituito la c.d. goccia che aveva fatto traboccare il vaso, con enormi sensi di colpa nei confronti del figlio e su fortissime pressioni della moglie che intendeva al più presto ottenere la separazione, acconsente a rivolgersi insieme a lei ad un Avvocato familiarista suggerito da un’amica della moglie la quale riceve a studio entrambi più volte, acquisendo perciò tutte le informazioni personali e riservate su entrambi – scappatella inclusa – sulla loro vita familiare e naturalmente anche sulle rispettive situazioni patrimoniali.

Dopo diversi incontri e con davanti lo spettro di un addebito della separazione palesatogli dall’Avvocato, i coniugi raggiungono quindi l’accordo per la separazione consensuale ed il mio cliente – per nulla consapevole sia degli aspetti tecnici e procedurali sia delle concrete conseguenze giuridiche che l’accordo raggiunto avrebbe comportato perché mai correttamente informato da quell’Avvocato – in totale buona fede sottoscrive il ricorso congiunto e corrisponde tra l’altro all’Avvocato l’intera parcella professionale per sè e per la moglie, senza richiedere fattura per contenere i costi.

Il ricorso congiunto per separazione consensuale viene, quindi, depositato da quell’Avvocato e l’udienza Presidenziale con tutti gli adempimenti che ne conseguono vengono trattati dal medesimo Avvocato.

A distanza di tre anni il mio cliente riceve una lettera di richiesta di divorzio dalla moglie per il tramite di quel medesimo Avvocato e, su suggerimento dell’attuale compagna, anziché contattarlo direttamente, decide di rivolgersi al mio studio.

Mi consegna quindi, insieme alla lettera, copia del verbale di separazione consensuale omologato e copia del ricorso per separazione consensuale.

Nel leggere questi atti mi viene spontaneo chiedergli come mai avesse deciso – al contrario della moglie – di difendersi da solo per tutta la fase della separazione, senza l’assistenza di un Avvocato.

Immaginate il suo enorme stupore, la rabbia ed il disgusto manifestatomi quando ha appreso che il ricorso era stato si sottoscritto da entrambi i coniugi, ma che l’Avvocato al quale si erano rivolti entrambi risultava aver formalmente assistito in tutte le fasi – dal ricorso al provvedimento di separazione – soltanto la moglie e che, per giunta, le clausole delle condizioni di separazione erano state appositamente formulate per agevolare sotto ogni profilo patrimoniale la sua ex coniuge senza che quell’Avvocato ne avesse spiegato le conseguenze e gli effetti al mio cliente.

In conseguenza di tutto ciò, il mio cliente, resosi conto di essere stato raggirato dalla moglie e dall’Avvocato, e poichè sussistevano i motivi per ottenere la sostanziale modifica in suo favore delle condizioni di separazione, ha respinto qualsiasi ipotesi di trattativa ed ha anzi preteso di avviare immediatamente il procedimento di divorzio giudiziale.

La moglie si è costituita in giudizio con il patrocinio di quel medesimo Avvocato che è tutt’ora il suo difensore.

Lasciando quindi al mio cliente la decisione di denunciare o meno il comportamento di quell’Avvocato all’Organismo competente, ma partendo da questo caso concreto, quale la normativa di riferimento?

E quale sarebbe in ogni caso l’esito dell’esposto del mio cliente alla luce dell’orientamento del C.N.F. e della giurisprudenza di legittimità sul punto?

Le norme di riferimento sono naturalmente gli artt. 24 e 68 del Codice Deontologico Forense.

L’espressione “conflitto d’interessi” riportata all’art. 24 – come sappiamo – è mutuata dal diritto privato nel quale il concetto di conflitto si identifica in una situazione di netto contrasto tra due distinti interessi, all’interno della quale la tutela di una delle posizioni contrapposte rischia di compromettere le ragioni dell’altra o, comunque, diventa incompatibile con la tutela di quest’ultime.

Nella sua specifica regolamentazione, l’art. 24 del c.d.f. enuncia un principio immanente nell’ambito dell’esercizio di qualsiasi attività professionale fondata su rapporti di fiducia e riservatezza e mira – dunque – a tutelare l’indipendenza e l’imparzialità della funzione difensiva e, ad assicurare che il mandato professionale sia svolto in assoluta libertà ed indipendenza da ogni vincolo, nonché a garantire che il rapporto fiduciario, che deve sussistere tra il cliente e l’Avvocato ed il connesso vincolo di riservatezza che concerne le notizie apprese dal cliente nell’espletamento del mandato, non siano in alcun modo incrinati da altri incarichi assunti dal professionista.

Altresì, la specifica e rigorosa previsione dell’art. 68 C.D.F. vieta al professionista – rectius Avvocato di famiglia – che abbia congiuntamente assistito i coniugi ovvero il minore in controversie familiari, di assumere successivamente il mandato per la rappresentanza di uno di essi contro l’altro.

Il rigore dell’art.68 c.d.f. è oltremodo rilevante, avendo recepito nel nuovo testo (comma 4) anche l’ipotesi di conviventi e soprattutto la previsione del tutto nuova, rispetto alla formulazione anteriore alla riforma, l’ipotesi della persona minore di età.

La ratio è proprio quella di dare risalto all’esigenza di conferire una maggiore severità ed un più stretto rigore, sotto il profilo deontologico, nei confronti degli Avvocati che si occupano delle materie familiare e minorile, volta ad assicurare, in tali ambiti, l’esercizio della professione forense quanto più ispirato al perseguimento di un operato professionale corretto e leale, attesi gli interessi coinvolti.

Da qui anche l’estensione temporale del divieto, senza limiti (non valendo il limite temporale dei due anni, come avviene di regola).

E l’estensione del divieto anche alle ipotesi in cui non si richieda specificatamente l’utilizzo di conoscenze ottenute in ragione della precedente congiunta assistenza ed alle ipotesi in cui il professionista abbia svolto attività diretta a creare l’incontro della volontà seppure su un unico punto degli accordi di separazione o divorzio.

In sostanza, la disciplina del conflitto di interessi valorizza principi deontologici disciplinati dallo stesso corpus normativo quali i più generali doveri di lealtà e correttezza, di fedeltà, di segretezza e riservatezza, nonché il fondamento dei rapporti che devono sussistere con la parte assistita e con la controparte improntati sulla fiducia e sul divieto di assumere incarichi contro ex clienti, anche allorquando il conflitto d’interessi rilevi soltanto potenzialmente e l’opera del professionista possa essere condizionata da rapporti d’interesse con la controparte.

In senso conforme a ciò si sono espressi tanto il recente orientamento della giurisprudenza di legittimità quanto la costante giurisprudenza del Consiglio Nazionale Forense, sia antecedente sia successiva alla riforma del 2014.

In particolare, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza 7 aprile 2014, n. 8057 che ha definitivamente recepito l’orientamento costante e da tempo più rigoroso del C.N.F. sul punto, ha stabilito che “il difensore che abbia svolto attività di assistenza, anche soltanto formale, a favore di entrambi i coniugi nel procedimento di separazione è considerato difensore di entrambi i coniugi anche in assenza di una prova del conferimento formale dell’incarico. L’assistenza, anche solo formale, a favore di entrambi i coniugi nel corso del giudizio di separazione è sufficiente per far scattare il divieto sancito dall’art. 51, primo canone, del codice deontologico forense del 17 aprile 1997, divieto ora ripreso dall’art. 68, quarto comma, del codice deontologico forense attualmente vigente

Già nel 2006 le Sezioni Unite erano intervenute in materia affermando espressamente che tale divieto prevede un obbligo assoluto di astensione, fondato sull’esigenza di garantire la massima tutela possibile agli alti interessi in gioco nella materia del diritto di famiglia, e che la disposizione contenuta nella predetta norma ha carattere speciale rispetto alla disciplina generale in tema di conflitto di interessi (contenuta all’epoca nel comma primo dell’art. 37 del vecchio codice deontologico forense).

In particolare, le Sezioni Unite, avallando l’orientamento già emerso nella giurisprudenza disciplinare, avevano rilevato come, nel caso di controversie in materia di diritto di famiglia, la valutazione della sussistenza della situazione di conflitto sia operata direttamente dalla stessa norma.

Da ciò ovviamente consegue la limitazione del giudizio dell’interprete al mero accertamento del fatto costitutivo di quell’effetto, senza alcuna possibilità di indagine in ordine alla natura reale o meramente potenziale della situazione di conflitto di interessi.

In effetti, nel caso esaminato dalla Corte si discuteva proprio dell’esatta individuazione del fatto costitutivo del presupposto di applicazione della norma, ossia della definizione della nozione di “assistenza congiunta”: il difensore era accusato della violazione dell’art. 51 del vecchio c.d.f. per aver sentito entrambi i coniugi nel proprio studio e per aver partecipato all’udienza presidenziale del procedimento di separazione consensuale; non risultava, invece, il conferimento formale dell’incarico professionale, quantomeno da parte del coniuge nei confronti del quale il medesimo Avvocato aveva poi promosso un nuovo giudizio nell’interesse dell’altro coniuge.

La coeva sentenza del 20 marzo 2014, n. 43 del C.N.F. – che riassume il predetto orientamento conforme e rigoroso del C.N.F. prima della riforma del 2014 – in merito al divieto di assistere un coniuge contro l’altro dopo averli assistiti entrambi, aveva stabilito che la previsione dell’art. 51 C.D.F. (oggi art. 68 C.D.F.) “costituisce una forma di tutela anticipata al mero pericolo derivante anche dalla sola teorica possibilità di conflitto d’interessi, non richiedendosi specificatamente l’utilizzo di conoscenze ottenute in ragione della precedente congiunta assistenza; pertanto, la norma de qua non richiede che si sia espletata attività defensionale o anche di rappresentanza, ma si limita a circoscrivere l’attività nella più ampia definizione di assistenza, per l’integrazione della quale non è richiesto lo svolgimento di attività di difesa e rappresentanza essendo sufficiente che il professionista abbia semplicemente svolto attività diretta a creare l’incontro delle volontà seppure su un unico punto degli accordi di separazione o divorzio

Le Sezioni Unite – quindi – hanno incidentalmente avallato la tesi espressa dal Consiglio Nazionale Forense, secondo cui il presupposto dell’assistenza congiunta risulta essere integrato dal semplice svolgimento di attività nell’interesse di entrambi i coniugi, quand’anche avvenuta a livello solamente formale (come appunto nel caso di audizione in studio di entrambi i coniugi e di partecipazione all’udienza presidenziale).

La Suprema Corte, al pari del Consiglio Nazionale Forense, ha quindi ritenuto del tutto irrilevante la mancanza di un espresso conferimento di incarico professionale da parte di uno dei coniugi, così di fatto respingendo la tesi difensiva dell’Avvocato sottoposto a giudizio disciplinare: l’avvocato incolpato aveva infatti sostenuto di aver assistito soltanto un coniuge e che l’altro, pur avendo deciso di separarsi consensualmente, aveva scelto di non farsi seguire da alcun difensore.

A seguito della riforma del 2014 e con ciò fornendo un’interpretazione ancora più rigorosa, il C.N.F. – con la sentenza del 28 dicembre 2015 n.226 – ha stabilito che “costituisce illecito deontologico la condotta del professionista che in seguito alla dismissione del mandato – indipendentemente dal fatto che questa sia dovuta a revoca o rinuncia – assuma il mandato da soggetto che abbia un interesse confliggente con quello del proprio ex cliente utilizzando contro quest’ultimo informazioni dallo stesso assunte nell’espletamento del precedente mandato”.

Nel caso di specie, su incarico della cliente, l’Avvocato convocava presso il proprio studio il marito di questa e quindi predisponeva la bozza di ricorso per separazione consensuale per conto di entrambi i coniugi. Successivamente, a seguito di ripensamento e revoca del mandato da parte del marito, l’Avvocato procedeva comunque giudizialmente contro quest’ultimo nell’interesse della moglie rimasta sua cliente, utilizzando contro di lui anche notizie precedentemente apprese dallo stesso.

Nella parte motiva della suddetta sentenza il C.N.F. spiega che “Con tali specificazioni, si ritiene di poter affermare che il divieto di assistere un coniuge contro l’altro, dopo averli assistiti entrambi, vada inteso nel senso più ampio, ricomprendendovi, pertanto, non solo le fattispecie che hanno origine dal mandato e dalla rappresentanza giudiziale congiunti, ma anche alle ipotesi in cui entrambi i coniugi siano stati ricevuti in studio dall’Avvocato“.

La rigidità dell’orientamento espresso è motivata dal condivisibile intento di evitare facili “aggiramenti” del divieto previsto dal codice deontologico.

Conclusioni

Per concludere, quindi, non v’è dubbio che solo possedendo quella che Aristotele chiamava la φρόνησις (phronesis), la virtù dianoetica della saggezza, sono possibili tutte le altre virtù e che per giungere alla spontaneità di un comportamento deontologicamente ed eticamente leale e corretto dell’Avvocato sia indispensabile un forte impegno formativo attraverso il quale il Professionista acquisisca – fin dagli anni dello studio e della preparazione universitaria – quegli abiti virtuosi, quelle attitudini personali che lo portano ad agire bene, con competenza e correttezza, nel proprio specifico ambito di attività.

Roma, il 20 dicembre 2016

 

Commenti su “DEONTOLOGIA PROFESSIONALE: QUESTA SCONOSCIUTA”

  1. Mario ambrogi

    È una storia che conosco perchè ben due avvocati nel mio divorzio si sono comportati esattamente così aggiungendo se possibile la sorpresa e lo sgomento ad una storia comunque difficile che avrebbe potuto avere diverso corso se anche il consulente familiare nonci si fosse anche lui messo in mezzo: convocato per entrambi e ricevuto incarico fiduciario anche lui in nome di quella fiducia non si comporta da consulente equanime ma sbilancia le scelte dell’una contro l’interesse dell’altro. Anche io come quel marito mi sono ‘fidato’ e più del danno peralgro notevole mi ha lacerato l’essere messo i mezzo senza lealtà reciproca, senza che la distribuzione delle scelte, delle responsabilità e dei costi potesse ricevere una equanimd distribuzione. Più che di etica da promuovere troverei più facile vietare il cannibalismo: più esplicito il concetto più facile da riconoscere il rischio.

  2. SUSANNA

    mi dispiace molto leggere questo commento; che posso dire: fortunatamente noi avvocati non siamo tutti uguali e ci sono anche seri professionisti che svolgono la loro attività con coscienza.

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