“LE PROSPETTIVE DI RIFORMA DELLA L.219/12, LE DELEGHE E L’ATTUAZIONE”

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Convegno AMI – Sez. distrettuale di Lecce

Le nuove competenze del tribunale ordinario alla luce dell’equiparazione tra figli legittimi e figli naturali 

Lecce, 5 aprile 2013

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Le prospettive di riforma della L. 219/12, le deleghe e l’attuazione

di Avv. Mara Lucia Schirinzi

 

Questo lavoro nasce dal proposito di analizzare tutte le novità introdotte dalla legge 219/12 della quale saranno evidenziati gli aspetti più nevralgici, anche in una prospettiva de iure condendo.        

I figli sono tutti uguali. D’ora in poi nessuna distinzione tra “legittimi” e “naturali”. Semmai tra figli nati all’interno e fuori dal matrimonio. Ma uguale deve essere il trattamento che la legge loro riserva.

E’ questa in sintesi, la linea ispiratrice della riforma, chiaramente attuativa dei principi fondamentali statuiti dalla Costituzione (art. 30), in contestuale conformità alla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (art. 21: divieto di discriminazione in base alla nascita; art. 24: Diritti del bambino), alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (artt. 14 e 1 del Protocollo Addizionale n. 12: divieto di discriminazione in base alla nascita;) ed alla Giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

Una legge attesa da tempo, la necessaria risposta giuridica ai mutamenti intervenuti nelle dinamiche sociali nelle quali si registra una crescita esponenziale delle convivenze more uxorio e un dato statistico rilevante con cui il legislatore ha dovuto confrontarsi: un bambino su cinque in Italia nasce fuori dal matrimonio.

Vediamo su quali aspetti sostanziali e procedurali intervengono le norme approvate.

In primis la legge elimina ogni differenza, anche meramente terminologica, tra “figli naturali” e “figli legittimi”, prevedendo che, nel codice civile, le parole “figli legittimi” e “figli naturali” ovunque ricorrano siano sostituite da “figli”, e ne equipara altresì lo status giuridico in virtù del nuovo art. 315 c.c., principio cardine dell’intero provvedimento legislativo, che ora recita “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”.

Conformemente a tale equiparazione, è abrogata nel corpus del Libro I del codice civile, l’intera Sezione II del Capo II del Titolo VII, rubricata “Legittimazione dei figli naturali”, oramai priva di qualsivoglia utilità.

Il legislatore della riforma riscrive l’art. 74 c.c. che oggi offre una nozione più ampia di parentela, definita come vincolo tra persone che discendono da uno stesso stipite sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo, con esclusione del vincolo di parentela nell’ipotesi di adozione di persone maggiori di età. La legge involge, dunque, anche i rapporti di filiazione non biologica ma soltanto con riferimento ai figli adottivi minori di età.

Consequenziale a questa modifica è il novellato art. 258 c.c. che estende gli effetti del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio ai parenti del genitore da cui fu fatto.

Si tratta di un’innovazione determinante giacchè, nell’ambito di rapporti di parentela instauratisi in virtù della sola appartenenza al medesimo stipite, la legge consente anche alla prole nata fuori dal matrimonio di vantare legami giuridici con i familiari del genitore che ne abbia effettuato il riconoscimento.

In ragione di ciò, sembra possibile ipotizzare un destino più conforme a equità riservato ai figli nati fuori dal matrimonio, che – in caso di decesso del genitore – potrebbero essere affidati ai nonni, paterni o materni, con conseguente minore ricorso all’istituto dell’adozione e con il vantaggio per gli orfani di continuare a crescere nella famiglia d’origine.

Inoltre, la legge delega, alla luce del principio di unicità dello stato di figlio e dell’ampliata nozione di parentela, comporterà la modifica della disciplina delle successioni, incidendo, in particolare, sulla commutazione, sulla successione tra fratelli e sulla successione per rappresentazione.

Orbene, l’istituto della commutazione sembra essere tacitamente abrogato. Viene meno, dunque, la facoltà per i figli nati nel matrimonio di offrire ai fratelli naturali denaro o beni di valore corrispondente alla loro quota di eredità, sicchè questi ultimi potranno concorrere senza discriminazioni alla divisione del patrimonio ereditario.

Ancora, per ciò che concerne la successione tra fratelli, alla morte del fratello legittimo, quello naturale sarà ricompreso tra gli eredi del primo. Invero, già prima di questo intervento normativo, la Corte Costituzionale con la sentenza del 4 luglio 1979  n. 55, e quella successiva del 12 aprile 1990 n. 184, aveva parzialmente inciso sulla disciplina della successione tra fratelli, stabilendo che alla morte del fratello naturale, l’altro fratello avrebbe ereditato qualora il defunto non avesse avuto coniuge, figli ed altri parenti entro il sesto grado, con priorità soltanto sullo Stato. Un questione che oggi, stante la intervenuta equiparazione tra i figli, dovrebbe essere definitivamente risolta, per cui nell’ipotesi di morte senza prole, i fratelli del de cuius potranno ereditare anche nel caso in cui siano nati fuori dal matrimonio. Così la presenza del fratello naturale inciderà sulla quota spettante all’eventuale coniuge superstite e agli altri fratelli, con prevalenza sui parenti di grado ulteriore.

Infine, riguardo all’istituto della rappresentazione, non dovrebbero esserci più limiti al subentro dei discendenti dei fratelli o sorelle del defunto.

Di estremo interesse sono le modifiche sostanziali e le novità procedimentali  in materia di riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio.

Nel nuovo art. 250 c.c., in senso favorevole al minore, è stata abbassata da sedici a quattordici anni l’età a partire dalla quale il riconoscimento non produce effetto senza il suo assenso. E’ stata altresì ridotta da sedici a quattordici anni l’età al di sotto della quale il riconoscimento non può avere effetto senza il consenso dell’altro genitore che lo abbia già effettuato.

La norma detta nuove regole procedimentali nella ipotesi di opposizione al riconoscimento da parte dell’altro genitore. In precedenza, il testo si limitava a prevedere che, in caso di opposizione, su ricorso del genitore che intendeva effettuare il riconoscimento, il Tribunale, sentito il minore nel contraddittorio tra le parti e con l’intervento del pubblico ministero, pronunciasse una sentenza che, in caso di accoglimento della domanda, teneva luogo del consenso mancante.

Oggi il procedimento è connotato da una struttura “bifasica” e, per certi versi, semplificata, che ricorda quella del procedimento per ingiunzione. Qualora uno dei due genitori rifiuti il consenso, il genitore che vuole riconoscere il figlio può ricorrere al giudice che fissa un termine per la notifica del ricorso al genitore che si oppone.

A questo punto, se entro trenta giorni dalla notifica del ricorso, non fa seguito da parte del genitore una formale opposizione, il giudice deciderà con sentenza che terrà luogo del consenso mancante. Se, al contrario, il genitore propone opposizione nel termine previsto, si apre una fase istruttoria nella quale il giudice può assumere ogni opportuna informazione, dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto almeno dodici anni o anche di età inferiore se capace di discernimento, e, all’esito di una delibazione sommaria, assume gli eventuali provvedimenti provvisori ed urgenti (in ordine al diritto di visita, al contributo economico, etc.) al fine instaurare nelle more del giudizio la relazione genitore-figlio. Ciò semprechè, prevede la norma, l’opposizione non sia palesemente fondata. Terminata l’istruttoria, in caso di rigetto dell’opposizione, il giudice decide con sentenza che sostituisce il consenso mancante. Inoltre, in linea con l’obiettivo di concentrazione dei tempi processuali, la norma prevede che la sentenza contenga anche provvedimenti sull’affidamento e il mantenimento del minore, nonché sul suo cognome, ai sensi dell’art. 262 c.c..

Si tratta di un procedimento semplificato rispetto al modello contenuto nella vecchia formulazione dell’art. 250 c.c., poiché la instaurazione del contraddittorio si determina solo in caso di opposizione dell’altro genitore. La previsione di questa “fase eventuale” consente alla parte che ha opposto inizialmente il suo rifiuto di disporre del tempo necessario a ponderare la questione, magari scegliendo la via della composizione della conflittualità così da evitare che la iniziale contesa sfoci in lunghi procedimenti giudiziari.

Infine, nell’ultimo comma dell’art. 250 c.c. viene mitigato il divieto di riconoscimento da parte dei genitori con meno di sedici anni con la possibilità che il giudice li autorizzi, valutate le circostanze e avuto riguardo all’interesse del figlio.

Con questa legge, si supera ogni pregiudizio, ogni discriminazione di sorta. Il legislatore elimina dal sistema normativo la inaccettabile disciplina relativa ai figli incestuosi, riformulando l’art. 251 c.c. e superando le iniziali perplessità che hanno accompagnato il dibattito parlamentare, basate sull’erronea convinzione che la possibilità di riconoscimento dei figli incestuosi potesse sminuire la riprovevolezza della violenza endofamiliare.  Per effetto del nuovo testo vengono meno i presupposti ai quali in precedenza era subordinato il riconoscimento. Ora l’art. 251 c.c. pone rilievo sul solo “interesse del figlio” e, sotto la nuova rubrica “Autorizzazione al riconoscimento”, prevede la possibilità di riconoscimento del figlio incestuoso previa autorizzazione del giudice avuto riguardo soltanto all’interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio.

Si specifica altresì che nell’ipotesi in cui il riconoscimento riguardi una persona minore di età, la competenza spetta al Tribunale per i minorenni. Su questo ultimo punto però si rileva un’incongruenza: se da un lato il legislatore, come si vedrà dall’analisi dell’art. 38 disp. att. c.c., sposta dal Tribunale per i minorenni al Tribunale ordinario la competenza relativa ai provvedimenti di cui all’art. 250 c.c., dall’altro lato, ristabilisce tale competenza per i figli nati da persone legate da un vincolo di parentela o di affinità. In tal modo si reintroduce una diversità di trattamento proprio in un testo normativo che, facendo perno su un nuovo e unico status giuridico di “figlio”, dovrebbe avere la finalità di eliminare ogni distinzione anche sotto il profilo giurisdizionale.

Viene inoltre modificato l’art. 276 c.c. che, in materia di legittimazione passiva nella dichiarazione di paternità e maternità naturale, nella formulazione ante riforma, si limitava a prevedere che la relativa domanda dovesse essere proposta nei confronti del presunto genitore o, in sua mancanza, nei confronti dei suoi eredi, con la previsione che a tale domanda può contraddire chiunque vi abbia interesse. La previgente disciplina, precludendo la possibilità di chiedere il riconoscimento dello stato di figlio in mancanza del genitore o dei suoi eredi, determinava di fatto un pregiudizio per il presunto figlio il quale, senza alcun rimedio giuridico, era costretto a rinunciare ai propri diritti.

Il nuovo testo aggiunge che in caso di mancanza di eredi del genitore, la domanda deve essere proposta nei confronti di un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso.

Il legislatore, dunque, si è preoccupato di salvaguardare la integrità del contraddittorio in ogni caso, sia all’atto della instaurazione del procedimento, sia anche nella ipotesi in cui, promossa l’azione, venga meno (per incapacità, per morte o per altra causa) l’originario legittimato passivo.

Muta il profilo giuridico del Titolo IX del Libro I del codice civile, prefigurato dalla nuova intestazione, ora “Della potestà dei genitori e dei diritti e dei doveri del figlio”, particolarmente caratterizzato dalla introduzione dell’art. 315 bis c.c., che nel sistema di tutela dei minori, detta i principi generali regolatori della materia: il diritto del figlio al mantenimento, il diritto all’educazione e all’assistenza morale da parte dei genitori, il diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti. Ne emerge chiaramente un rafforzamento dei principi della legge 54/2006 sull’affidamento condiviso. Con siffatta innovazione, il legislatore offre una compiuta individuazione dei diritti del figlio, non più desumibili soltanto dai doveri che incombono sui genitori.

La stessa norma richiama i doveri del figlio di rispettare i genitori e di contribuzione al mantenimento della famiglia finchè convive con essa.

L’art. 315 bis c.c. attribuisce uno specifico diritto al minore: il diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano e, dunque, a prescindere dall’oggetto. La nuova disposizione, dall’indubbia portata generale rispetto a quella contenuta nel primo comma dell’art. 155 sexies c.c., si riferisce al minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove abbia capacità di discernimento. La espressa previsione in favore del minore di un “diritto” all’ascolto, è il frutto di un cambiamento legislativo che, in ossequio ai principi dettati dal diritto europeo, è finalizzato alla costruzione di un modello procedimentale nel quale il minore possa essere parte attiva nelle questioni che riguardano i suoi interessi e i suoi diritti, “così guardando al fanciullo non come semplice oggetto di protezione ma come vero e proprio soggetto di diritto, a cui va data voce nel momento conflittuale della crisi familiare” (Trib. Varese, 24 gennaio 2013).

In materia di obbligazione alimentare, è stato introdotto nel codice civile l’art. 448 bis che sottrae i figli, anche adottivi e, in loro mancanza, i discendenti prossimi, all’adempimento dell’obbligo di prestare gli alimenti nei confronti del genitore decaduto dalla potestà e che permette loro di escluderlo dalla successione per i fatti che non integrino i casi di indegnità di cui all’art. 463 c.c..

Si inaspriscono, dunque, le conseguenze giuridiche della decadenza della potestà genitoriale.

Un’innovazione rilevante sul piano processuale è quella che incide sul riparto delle competenze tra il Tribunale ordinario e il Tribunale per i minorenni. Nel nuovo art. 38 disp. att. c.c., il legislatore ha ridotto drasticamente le competenze civili del Tribunale per i minorenni, cui restano oggi destinati i seguenti provvedimenti:

– l’autorizzazione a contrarre matrimonio del minore che abbia compiuto i sedici anni (art. 84);

– la nomina di un curatore speciale che assista il minore nella stipula delle convenzioni matrimoniali (art. 90);

– i procedimenti de potestate ( artt. 330, 332, 333, 334, 335);

– l’autorizzazione a proseguire l’impresa (art. 371 u.c. c.c.).

Pertanto, la competenza sui provvedimenti previsti dalle ulteriori norme elencate nel vecchio testo dell’art. 38, spetta al Tribunale ordinario. In particolare viene eliminato dall’art. 38 il riferimento all’art. 316 bis c.c., così trasferendo dal Tribunale per i minorenni al Tribunale ordinario la competenza sulle controversie relative all’esercizio della potestà e all’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio.

In merito all’adozione di provvedimenti in presenza di una condotta del genitore pregiudizievole per i figli (art. 333 c.c.), l’art. 38 comma 1 disp. att. c.c. conferma la competenza del Tribunale per i minorenni, salvo che sia in corso, tra le stesse parti,  un procedimento di separazione o divorzio o giudizio in materia di esercizio della potestà genitoriale di cui all’art. 316 c.c., nel qual caso la competenza è attribuita al giudice ordinario. La stessa norma statuisce che in tale ipotesi, per tutta la durata del processo, la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario. Una formulazione poco chiara da parte del legislatore che dapprima fa riferimento solo ai provvedimenti di cui all’art. 333 c.c. e poi estende la competenza del Tribunale ordinario, nelle ipotesi di pendenza di giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’art. 316 c.c., a tutti i provvedimenti che la legge riserva al giudice minorile.

Resta fermo il criterio della competenza residuale assorbente del Tribunale ordinario laddove non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria.

Riguardo al rito applicabile, alla stringata previsione contenuta nel vecchio art. 38 disp. att. c.c. si sostituisce una disposizione più dettagliata che prevede una procedura ad hoc per i procedimenti in materia di affidamento e mantenimento dei minori, ai quali si applicano, in quanto compatibili, gli artt. 737 ss. c.p.c..  Più precisamente, fermo restando quanto previsto per le azioni di stato, il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente. E’ inoltre confermata la competenza della sezione di Corte d’Appello per i minorenni sul reclamo sui provvedimenti emessi dal giudice minorile.

Le modifiche all’art. 38 disp. att. c.c. si applicano ai procedimenti instaurati a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge. Pertanto, resta ferma la competenza del Tribunale per i minorenni per tutti i procedimenti instaurati ai sensi del vecchio testo dell’art. 38 prima di tale data.

Di rilevanza pratica è l’art. 3, comma 2 della legge, che in conformità al principio di equiparazione tra filiazione legittima e naturale, estende ai figli nati fuori dal matrimonio gli speciali strumenti di garanzia dei provvedimenti patrimoniali in materia di alimenti e mantenimento della prole, già previsti per i figli di genitori coniugati: garanzie personali o reali a carico del genitore obbligato, il sequestro dei beni dello stesso, l’ordine al terzo tenuto a corrispondere somme di denaro all’obbligato, di versare tali somme direttamente agli aventi diritto, ed ancora, la previsione di titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’art. 2818 c.c. dei provvedimenti patrimoniali definitivi.

Tali garanzie, in virtù dell’art. 4 comma 2 della legge di riforma, sono applicabili anche ai procedimenti relativi all’affidamento e al mantenimento dei figli di genitori non coniugati, pendenti davanti al Tribunale per i minorenni alla data di entrata in vigore della legge, ossia l’1 gennaio 2013.

Infine, in ordine alle modifiche delle norme regolamentari in materia di stato civile, previste direttamente dalla legge, l’art. 5, comma 2 sostituisce l’art. 35 D.P.R.  n. 396/2000. Il nuovo testo prevede che  il nome imposto al figlio deve corrispondere al sesso e può essere costituito da un solo nome o da più nomi, anche separati, non superiori a tre. Nel caso siano imposti due o più nomi separati da una virgola, negli estratti e nei certificati rilasciati dall’ufficiale dello stato civile e dall’ufficiale di anagrafe deve essere riportato solo il primo dei nomi.

In sostanza, si ritorna al sistema antecedente il D.P.R. n. 396/2000.

De iure condendo, la legge delega il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi di modifica delle disposizioni vigenti in materia di filiazione e di dichiarazione dello stato di adottabilità per eliminare ogni discriminazione tra i figli, anche adottivi, nel rispetto dell’art. 30 Cost., e osservando tra gli altri, i principi di cui agli artt. 315 e 315 bis c.c..

Più dettagliatamente, l’Esecutivo dovrà legiferare seguendo diversi criteri direttivi, tra i quali:

1. La sostituzione, in tutta la legislazione vigente,  di ogni riferimento a “figli legittimi” e “figli naturali” con il riferimento a “figli”, salvo l’utilizzo delle denominazioni di “figli nati nel matrimonio” o “figli nati fuori del matrimonio” quando si tratta di disposizioni ad essi specificamente relative.

2. La modificazione del titolo VII del Libro I del codice civile, ridefinendo, in particolare, la disciplina del possesso di stato e della prova della filiazione, con la previsione che la filiazione fuori dal matrimonio potrà essere provata con ogni mezzo idoneo.

3. La modificazione della disciplina del riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio con la previsione, in particolare, dell’estensione del principio dell’inammissibilità del riconoscimento di cui all’art. 253 c.c. a tutte le ipotesi in cui il riconoscimento medesimo è in contrasto con lo stato di figlio riconosciuto o giudizialmente dichiarato, nonché dell’adeguamento al principio dell’unificazione dello stato di figlio, della disciplina relativa all’inserimento del figlio riconosciuto nella famiglia dell’uno e dell’altro genitore, demandando esclusivamente al giudice la valutazione di compatibilità di cui all’art. 30, terzo comma della Costituzione.

4. La modificazione della disciplina dell’impugnazione del riconoscimento con la limitazione dell’imprescrittibilità dell’azione solo per il figlio e con l’introduzione di un termine di decadenza per l’esercizio dell’azione da parte degli altri legittimati.

 5. La unificazione delle disposizioni che disciplinano i diritti e i doveri dei genitori nei confronti dei figli nati nel matrimonio e dei figli nati fuori del matrimonio, delineando la nozione di responsabilità genitoriale.

 6. La disciplina delle modalità di esercizio del diritto all’ascolto del minore che abbia adeguata capacità di discernimento, con la precisazione che nell’ambito di procedimenti giurisdizionali, ad esso provveda il presidente del tribunale o il giudice delegato. Questo punto della delega dovrebbe tendere ad uniformare le prassi diversificate dei vari uffici giudiziari in ordine alle modalità pratiche dell’ascolto, che attualmente sono rimesse alla prudente valutazione del giudicante.

7. La previsione della legittimazione degli ascendenti a far valere il diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minori. Questa è una novità che sembra destinata a superare quel prevalente orientamento giurisprudenziale che, nell’interpretare il riformulato art. 155 comma 1 c.c., ha escluso l’esistenza di un diritto di visita degli avi tutelabile in via diretta (Trib. Napoli, 1 febbraio 2007; Trib. Catanzaro, 7 febbraio 2011; Trib. Reggio Emilia 17 maggio 2007; Trib. Rieti, 7 novembre 2006) potendo trovare tutela esclusivamente per i nipoti il diritto ad intrattenere frequentazioni stabili e significative con gli ascendenti.

Occorre però evidenziare che il legislatore delegante ha demandato al delegato l’attribuzione ai “nonni” di una legittimazione attiva, in tal modo affermando – ancorchè solo per implicito – l’esistenza di un diritto soggettivo dei nonni non esplicitamente previsto da alcuna norma.

Ciò, all’evidenza, considerato che l’attivazione degli strumenti di tutela processuale presuppone l’esistenza di una posizione sostanziale da tutelare, consentirebbe al Governo, senza violazione dei limiti della delega, di riconoscere esplicitamente agli avi , regolamentandone la legittimazione a farlo valere in giudizio, il “diritto di relazione” con la progenie.

Questa possibilità sarebbe foriera di ulteriori effetti sul piano sostanziale perchè aprirebbe le porte anche ad eventuali pretese risarcitorie da parte dell’avo, ogni qual volta si configurasse una violazione colposa o dolosa del suo diritto da parte degli esercenti la potestà genitoriale.

Il legislatore delegato potrebbe seguire altre strade: attribuire agli avi una legittimazione nell’interesse del minore, attraverso la possibilità che l’art. 336 c.c. riconosce ai parenti di ricorrere al giudice al fine di ottenere i provvedimenti richiamati dalla stessa norma, o, magari, limitarsi a sancire, per gli avi, una legittimazione ad adiuvandum che la giurisprudenza di legittimità finora ha negato (Cass., Sez. I, 16 ottobre 2009, n. 22081;  Cass., 27 dicembre 2011, n. 28902).

Il Governo dovrà inoltre provvedere:

8. Al riassetto delle norme sulle successioni e le donazioni in ossequio al principio di unicità dello stato di figlio, prevedendo, anche in relazione ai giudizi pendenti, una disciplina che assicuri la produzione degli effetti successori riguardo ai parenti anche per gli aventi causa del figlio naturale premorto o deceduto nelle more del riconoscimento e, conseguentemente, l’estensione delle azioni di petizione di cui agli artt. 533 ss. c.c..

9. Alla specificazione della nozione di abbandono morale e materiale dei figli con riguardo alla provata irrecuperabilità delle capacità genitoriali in un tempo ragionevole da parte dei genitori, fermo restando che le condizioni di indigenza dei genitori non possono costituire ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia.

Queste sono solo alcune delle deleghe destinate al Governo.

Quali prospettive in proposito.

Non vi è dubbio che questo testo legislativo è un grande passo di civiltà giuridica ma presenta ancora delle zone d’ombra poiché è direttamente applicabile solo in parte. Il Parlamento, anziché definire compiutamente gli interventi da operare, li ha in gran parte demandati al Governo che non si limiterà a dare una nuova veste alle norme già scritte ma dovrà riempire di nuovo contenuto le norme da modificare, ridisegnando, entro dodici mesi dall’entrata in vigore della legge, una materia così delicata quale è quella della filiazione, con la possibilità, peraltro, che ai decreti legislativi seguano nuovi provvedimenti, integrativi o correttivi, senza contare i pur sempre possibili interventi del Giudice delle Leggi in seguito ad eventuali denunce di violazione del primo comma dell’art. 77 Cost..

Inoltre, in ordine al riparto delle competenze, il cambiamento è notevole. Lo spostamento di molti procedimenti giudiziari inciderà inevitabilmente sul carico di lavoro dei Tribunali ordinari dal momento che la riforma non è stata accompagnata da alcuna modifica al sistema organizzativo.

Sotto quest’ultimo profilo, è auspicabile che il percorso legislativo giunga al suo logico completamento con la istituzione del Tribunale per la Famiglia o delle sezioni specializzate in materia di famiglia in ogni tribunale. Il riassetto delle regole sulla competenza sembra andare in tale direzione.

In ogni caso, si dovrà seguire l’evoluzione normativa e giurisprudenziale che questa legge comporterà. Ci sono altri passi da fare. Sicuramente oggi il nostro Paese è di molto progredito nel dovere di conformarsi ai diritti umani fondamentali, già da tempo universalmente riconosciuti nella dignità e valore della persona umana, che ad ogni individuo spettano “sin dalla nascita”, senza distinzione alcuna per ragione della stessa nascita e di qualsivoglia altra condizione. La meta, tuttavia è ancora lontana e la strada, purtroppo, è ancora tutta in salita.

 

 

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