Svezia, tirò i capelli al figlio condannato il papà italiano

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Per Giovanni Colasante 750 euro di multa:«È un’ingiustizia enorme»


Fine del processo svedese. Fine della guerra di civiltà. Per il giudice Sakari Alander, signore e padrone dell’aula numero otto del tribunale di Stoccolma, non ci sono dubbi. Giovanni Colasante da Canosa di Puglia – stessa Europa, ma nella testa dell’inflessibile pubblico ministero Deniz Cinkitas un mondo primitivo – è colpevole di maltrattamenti nei confronti del figlio di dodici anni. La sua pena l’ha già scontata passando tre giorni e tre notti in carcere. E i 750 euro di multa che dovrebbe lasciare in Scandinavia fanno pari con la crociera nei fiordi che aveva organizzato da sei mesi. L’ha persa. Non c’è stato modo di farsela rimborsare. Punito lui, quarantaseienne dirigente di una azienda informatica e consigliere comunale di centrodestra, e punita la sua famiglia.

La colpa? Il 23 agosto, nel cuore della città vecchia, avrebbe tirato i capelli al suo primogenito. E non importa se lo ha fatto nel tentativo di trattenerlo mentre il piccolo scappava perché non aveva voglia di andare al ristorante. In Svezia è un reato. «Volevo prenderlo per il bavero della giacca», ha raccontato. Non gli hanno creduto. «Gli ha deliberatamente causato dolore. E questo va considerato un abuso», dice testualmente la sentenza emessa ieri. Deliberatamente. Come se fosse un aguzzino. Un torturatore di ragazzini. «Non ho mai fatto male ai miei figli e non gliene farei mai. Al massimo posso impedire loro di guardare la tv», dice al telefono Giovanni Colasante, cercando di impedire che quella crepa che gli si è infilata nell’anima finisca per diventare lo scivolo da cui si incunea un intollerabile senso di umiliazione. Prova a tirarsi su. «Al mio paese ho ricevuto tanta solidarietà».

Adesso, mentre l’avvocato Runenberg gli comunica la decisione di Alander, è seduto in un bar di Canosa di Puglia, di fianco alla moglie Maria Fonte, una donna raffinata con uno sguardo penetrante e remoto, che ancora trema quando il marito rimette assieme i tasselli di questo mosaico avvelenato. «Ho subito un’ingiustizia enorme. Non meritavo di essere trattato così. Ora valuteremo se fare appello». A inchiodarlo ci sono tre improbabili testimoni che davanti al giudice hanno raccontato tre storie diverse, che andavano dall’aggressione selvaggia a furia di schiaffi al buffetto sulla spalla. Sono gli stessi che quella sera lo hanno denunciato dopo essergli corsi incontro con la bava alla bocca. Roteavano i pugni e gridavano «italiani vaffanculo». Ma quello non è un reato.

Uno di loro ha raccontato che Colasante avrebbe sollevato il figlio da terra prendendolo per i capelli. Con un braccio solo. Se non era un mitomane per lo meno era un commediante. Uno che non si accontenta della realtà. «Mio figlio pesa cinquanta chili, vi pare possibile?». Al giudice Alander evidentemente sì. La stampa svedese ha infierito sull’italiano. Lo ha smontato come un lego. Lui e la sua cultura di quarta serie. «Ma nel vostro Paese siete abituati a picchiare i bambini?». Non è forse questa la domanda che gli ha fatto il gelido Cinkitas, un uomo che usa la propria supposta perfezione umana e l’inossidabile senso di sé come una clava? Magari, mentre lo guardava con quel senso di infastidita perplessità, in qualche modo voleva persino giustificarlo. Non era lui a essere violento, ma la strana terra in cui era nato. I Barbari. Che cos’altro siamo in fondo? «Ci vedono come gente abituata a fregare il prossimo, incapace di rispettare le regole. Invece io sono una persona perbene. Ma è come se il tribunale non si stesse rivolgendo a me in quanto Giovanni Colasante, ma in quanto italiano». Sensazioni appiccicose.

La polizia l’ha arrestato davanti ai suoi figli. I due bambini erano terrorizzati. L’hanno infilato in macchina e portato in caserma. «Avremmo potuto risolvere ogni cosa con il buon senso. Invece volevano a tutti i costi farmi ammettere cose che non avevo fatto. Mi hanno infilato in una cella e per un giorno intero mi hanno tenuto isolato dal mondo. È stato un incubo.

Non sapevo dove fosse la mia famiglia. Mia moglie era senza soldi, ma la polizia si è rifiutata di farle avere i miei. Dopo ventiquattro ore mi hanno interrogato di nuovo. Stavolta con un avvocato scelto da loro. Ancora adesso fatico a togliermi dalla testa questi pensieri». I ragazzi sono tornati immediatamente in Italia, lui li ha raggiunti solo la scorsa settimana, dopo il processo. «Hanno sofferto. Davvero non meritavamo tutto questo. Eppure in Svezia io ci tornerei». Sua moglie Maria Fonte gli si avvicina all’orecchio. «Io lì non ti accompagno più. Questa volta ci vai da solo».

 

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